Torta tedesca

L’uomo stava in piedi, a capo chino davanti al grande tavolo di legno scuro. Non gli piaceva l’odore di quella sala, che sapeva di polvere e corpi maleodoranti e sudati. Come il suo, del resto, che il bagno settimanale non l’aveva ancora fatto e aveva ancora addosso la camicia della settimana prima.

“Mario, di nuovo qui?” esclamò il giudice, “È la terza volta, negli ultimi mesi, che mi capiti davanti. Che hai combinato, ‘stavolta? Vediamo…” e armeggiò con alcune carte che aveva sul tavolo. “Furto! Ancora? Sentiamo, con quale scusa ti giustifichi oggi? Le volte scorse hai detto di aver rubato per fame, ho avuto pietà e ti ho fatto passare solo un paio di notti in galera ma oggi cosa mi racconterai?”

Mario esitò, imbarazzato, ma poi disse tutto d’un fiato: “Vede, signor giudice, io le posso raccontare anche qualche altra scusa ma la verità è che io la fame ce l’ho tutti i giorni, e anche la mia signora ha fame tutti i giorni! Allora, siccome che siamo poveri e la dispensa è sempre vuota, un giorno andiamo a raccogliere le erbe di campo ma poi le erbe ci mettono un po’ a ricrescere e allora cerco di tirare su qualche pesciolino dal fiume ma quelli sono furbi, sa? Mica vengono a vedere cosa c’è sull’amo, se non hai nemmeno un pezzetto di pane da buttare in acqua per attirarli. Allora provo con gli uccellini ma anche loro son mica facili da prendere. E così si va dal vicino che c’ha le galline e gli si chiedon due uova. Quello le due uova a sbafo, per amor di carità, una volta te le dà pure ma la volta dopo gliele devi pagare. E allora, cerca di qua, cerca di là, se non si trova nient’altro da mettere in pancia tocca rubarla, una gallina o una mela dall’albero più nascosto. Ma cosa vuole capire lei, la fame non ce l’ha mica!”

“Capisco benissimo, invece”, rispose il giudice stupito e divertito da tanta impertinenza, “ma vedi, Mario, il problema è che rubare è sbagliato, va contro la legge”
“Allora anche soffrire la fame è sbagliato e pure quello dovete farlo vietare dalla legge!” sbottò Mario.

“Hai ragione “, disse il giudice, “ma perché non provi a lavorare? Una volta lo facevi, mi pare”.
Mario fece un lungo sospiro: “certo che mi piacerebbe lavorare ma qui nessuno mi chiama più a fare quei lavoretti con cui ho campato fino ad ora”.

Non gli si poteva dare nemmeno tanto torto, pover’uomo. Non era più così giovane e per i lavori di fatica gli preferivano spesso i ragazzi, più forti e spavaldi. Inoltre si era ormai fatto la cattiva fama di quello che rubacchiava. E infatti ogni tanto ci ricascava e i Carabinieri andavano ormai a colpo sicuro a cercare il maltolto a casa sua. 

Quella volta il giudice decise pertanto che Mario meritasse una pena più severa. Non perché il fatto fosse improvvisamente diventato più grave – un ladro di polli sempre tale rimane – ma perché quel poveretto meritava una possibilità. E così gli comminò sei mesi di carcere per furto aggravato e reiterato con l’obbligo di istruirsi e lavorare in carcere per cercare di migliorare le proprie condizioni di vita. 

Mario dapprima si buttò a terra e fece una gran cagnara, sinceramente preoccupato per la moglie che rimaneva da sola a sbarcare il lunario, ma il giudice gli promise che avrebbe interessato il Comune perché le assistenti sociali si prendessero cura di lei mentre lui era in carcere. Allora, allettato dalla prospettiva di mangiare tre volte al giorno e sapendo che nemmeno alla moglie sarebbe mancato il necessario, si calmò, si rialzò in piedi e si consegnò ai Carabinieri ancora sbigottiti per quella scenata perché lo accompagnassero alla sua cella. 
Lo fecero lavare, gli diedero un pantalone e una camicia più grandi di due taglie ma puliti e profumati di sapone e quella sera, per la prima volta da mesi, Mario mangiò a sazietà e dormì al caldo. 

La mattina successiva, dopo la colazione si presentò alla porta della cella un omino di mezza età con pochi capelli e l’aria seria che gli ordinò di seguirlo. Mario gli andò dietro senza fiatare. Dopo aver svoltato per un paio di corridoi si trovarono in una grande sala dietro alla mensa, con qualche armadio alle pareti e due grandi tavoli in mezzo. “Benvenuto nella nostra piccola biblioteca. Io sono Luigi, il responsabile. Il direttore mi ha parlato di lei: dice che il giudice le ha ordinato di istruirsi e allora vediamo di fare il possibile, con ciò che abbiamo a disposizione qui.”

Mario si guardò intorno con tanto d’occhi. Una biblioteca? Mai vista una! E per quanto piccola e sfornita fosse quella del carcere, gli sembrò che in quegli armadi vi fossero più libri di quanti lui ne avrebbe potuti leggere in una vita intera. Per fortuna almeno le scuole elementari le aveva fatte, dunque leggere non sarebbe stato un problema. Restava da capire cosa leggere per riuscire ad istruirsi. Mario era un buon lavoratore: sapeva potare gli alberi, arare un campo, trasportare carichi pesanti, mettere su un muro, “ma che lavoro potrò mai imparare da un libro?”, pensava tra sé.

Luigi gli disse di cercarsi un libro che gli piacesse e che poi l’avrebbero letto insieme. Mario cercò lungamente tra i pochi scaffali finché la sua attenzione fu attirata da un libro dallo strano titolo: “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Che mangiar bene fosse un’arte non ne dubitava, e per certo sapeva pure di non averla mai sperimentata. Per il resto non capiva cosa vi fosse di tanto scientifico in un uovo bollito o in una minestra ma cedette alla curiosità ed estrasse timorosamente il libro dal suo scaffale. 

Luigi trasalì sorpreso: tutto si sarebbe aspettato da uno come lui, tranne quella scelta ma lo assecondò. Si misero ad un tavolo e iniziarono a sfogliarlo. L’italiano molto forbito e decisamente anacronistico dell’Artusi gli diede non poche difficoltà e Luigi lo dovette aiutare in più occasioni a comprenderne il testo. 

Giunti in fondo alla prefazio, Mario si guardava intorno, un po’ smarrito. “Vuole scegliere un altro libro? Forse questo è troppo difficile?”, chiese Luigi. Mario scosse la testa risoluto e volle andare avanti nella lettura. Quello che aveva letto in qualche modo gli piaceva, nonostante ne avesse compreso forse la metà. Ancora non immaginava come ma sentiva che quel libro gli avrebbe potuto aprire delle porte. Lessero le norme di igiene e una parte del vocabolario dei termini toscani che però Luigi suggerì di rileggere successivamente, man mano che quelle strane parole si fossero presentate nel testo, per evitare di perderci troppo tempo inutilmente. 

Allora Mario scorse l’indice delle ricette e tra tutte l’occhio gli cadde sulla “torta tedesca”. Suo nonno era di origine tedesca e suo padre il tedesco lo parlava. Mario invece, di quella lingua aspra e difficile ricordava a malapena qualche parola ma quella ricetta lo incuriosiva parecchio, anche perché dolci non ricordava di averne mai mangiati, e insieme a Luigi iniziarono a leggerne il testo: ‘Raccontavano i nostri nonni che quando, sullo scorcio del XVIII secolo, i Tedeschi invasero l’Italia, avevano nei loro costumi qualche cosa del bruto; e facevano inorridire a vederli preparare, ad esempio, un brodo colle candele di sego che tuffavano in una pentola d’acqua a bollore, strizzandone i lucignoli […]’

Mario sapeva di essere povero ma il brodo di candele non ricordava di averlo mangiato mai, nemmeno nei momenti più disperati. Vergognandosi poi della propria ignoranza non ebbe cuore di chiedere a Luigi cosa fosse il sego. Sapeva che un brodo così non l’avrebbe mai voluto mangiare e tanto gli bastò. 

Però la ricetta del dolce, per quanto a ben guardare fosse piuttosto semplice, gli stimolava la voglia di fare qualcosa che in vita sua non aveva mai provato. Certo, per uno che raramente riusciva a mettere insieme due uova mendicandole da qualche anima caritatevole, utilizzarne ben otto per un dolce solo era quasi una bestemmia. Ma il libro parlava di scienza e la scienza, nella mente di Mario, era qualcosa da rispettare e non discutere né contraddire. Mai.

Era quasi ora di pranzo e a forza di leggere di cibi buoni e genuini, gli era venuta una gran fame.
La biblioteca stava comunque per chiudere e Luigi stava per proporgli di continuare l’indomani mattina, quando Mario lo stupì chiedendo in prestito il libro per poterselo leggere comodamente in cella, durante il pomeriggio.
Colpito da tanta buona volontà Luigi non si oppose e l’uomo tornò nella sua cella reggendo in mano il prezioso trofeo che nascose con cura sotto le coperte.

Dopo il pranzo tornò subito in cella e si rimise a leggere voracemente, come se quel libro, potesse saziare in una volta sola tutta la sua fame arretrata. Si trovò spesso in difficoltà con parole strane e sconosciute ma decise di andare avanti ugualmente, ripromettendosi di chiedere aiuto a Luigi il mattino seguente. 

Dopo una notte agitata e una colazione frettolosa, arrivò davanti alla porta della biblioteca addirittura in anticipo rispetto all’orario di apertura, con il suo Artusi ben stretto in mano. Quando Luigi arrivò quasi non gli diede il tempo di aprire la porta che già lo tempestava di domande, tanto che ad un certo punto questi trasse da un altro armadio un grosso librone e glielo mise davanti sul tavolo: “questo si chiama vocabolario e adesso imparerai ad usarlo!”.

Fece alcuni goffi tentativi a vuoto ma imparò ben presto a destreggiarsi anche con quello e si rimise a leggere con rinnovata avidità. Dopo pochi giorni aveva finito il libro e chiese a Luigi non, come questi si sarebbe aspettato, di averne un altro ma di poter parlare con il direttore.
Luigi non poteva promettergli nulla ma gli disse che avrebbe senz’altro fatto un tentativo.

Il mattino seguente si presentarono alla porta della cella due Carabinieri che lo scortarono nell’ufficio del direttore, un uomo dall’aria apparentemente burbera ma sotto sotto affabile e pure ben disposto nei suoi confronti, come ebbe a scoprire ben presto.
Mario non fece grandi giri di parole ed andò direttamente al punto: “signor direttore, il giudice mi ha ordinato di istruirmi e di lavorare. Allora, io istruito non lo sono mai stato ma in questi giorni ho letto più che in tutta la mia vita e credo di aver capito cosa posso fare qui. Quindi le chiedo di poter lavorare in cucina.”

Il direttore era colpito da tanta diretta sincerità ma non poté trattenere un sorriso di fronte all’ingenuità di quell’uomo volenteroso: “vede, signor Mario, lavorare in cucina non è per niente semplice. Bisogna sapere cosa fare e come farlo, ci sono delle norme igieniche da conoscere e seguire scrupolosamente e comunque fare da mangiare per molte persone non è come cucinare per sé e la propria famiglia. Però la sua buona volontà mi fa ben sperare. pertanto le propongo un patto: lei inizierà lavando i piatti e le pentole e dopo che avrà pulito tutto, uno dei cuochi le insegnerà ogni giorno qualcosa. Sappia però che il personale di cucina mangia sempre per ultimo, dopo che tutti in mensa hanno finito e se la sorprendiamo a rubare anche solo mezzo panino sconterà il resto della sua pena senza più muoversi dalla sua cella. Siamo d’accordo?”
Mario avrebbe voluto abbracciarlo ma vista la presenza dei due uomini in divisa alle sue spalle optò per una più opportuna stretta di mano. “Quando posso cominciare?”, chiese entusiasta. “Anche oggi stesso, se vuole”, rispose il direttore con un gran sorriso.

E così fu. Lo portarono in cucina, gli diedero un grande grembiule di tela cerata, dei grossi guanti di gomma e lo misero davanti ad un’enorme vasca piena di acqua saponata. Mario lavorò alacremente per finire il prima possibile e poter parlare con il cuoco che lo avrebbe istruito. All’inizio faticava a destreggiarsi tra soffritti, intingoli, tempi di cottura ma pian piano iniziò a capire e a confrontare quello che vedeva e sentiva con ciò che aveva letto nel suo prezioso libro, cominciando anche a farsi delle idee sue in materia.

Alla fine del primo mese il direttore lo convocò nuovamente nel suo ufficio. Mario temette di essere redarguito per quel pezzo di pane che aveva preso da un piatto e masticato velocemente qualche giorno prima. Invece il direttore gli parlò a lungo, gli fece i complimenti perché tutti i colleghi della cucina erano entusiasti di lui e gli consegnò una busta che lui aprì con circospezione trovandovi, con sua grandissima sorpresa, dei soldi. Al suo sguardo stupefatto il direttore rispose sorridendo: “chi lavora deve essere pagato e lei non fa eccezione. Quei soldi sono suoi e può farne ciò che desidera”.

Mario con le guance rigate di lacrime estrasse dalla busta due banconote e consegnò il resto al direttore perché lo facesse avere alla moglie che lo attendeva a casa. Il direttore era curioso: “che ne farà di ciò che si è tenuto? Qui in carcere non ha certo bisogno di soldi”. Mario accennò vagamente ad un debito da pagare e si congedò con una vigorosa stretta di mano.
Tornato in cucina chiese al cuoco di procurargli delle provviste. Gli diede i soldi ed un biglietto scritto con grafia incerta e si rimise subito al lavoro.

Nel pomeriggio il cuoco gli portò ciò che aveva chiesto e Mario chiese di poter rimanere in cucina a fare pratica anche dopo la cena. Ormai tutti si fidavano di lui e non vi furono difficoltà a dargli il permesso.

Nella notte tutti i detenuti sentirono un delizioso profumo provenire dalla cucina e si chiesero quale occasione speciale potesse esservi per qualcosa di tanto inusitato, in mezzo ai soliti odori di sughi e minestre. Sapevano anche però che, di qualunque cosa si trattasse, certamente non era destinata a loro e si rassegnarono a dormire, cullati da sogni di pantagrueliche mangiate.

Il mattino dopo, rientrando al lavoro, i cuochi trovarono Mario ancora in cucina, addormentato su una sedia. Sul tavolo accanto a lui troneggiava una grande teglia con quella che aveva tutta l’aria di essere una torta. Un po’ sbilenca, forse, ma dal profumo decisamente invitante, di mandorle e di caffè. Mario si svegliò di soprassalto, si parò davanti alla sua creazione perché nessuno la toccasse e chiese di poter parlare subito col direttore.

Si presentò nell’ufficio seguito dal codazzo dei suoi colleghi stupiti e ammirati, reggendo in mano trionfante la sua torta tedesca, cucinata durante la notte con gli ingredienti acquistati grazie al suo meritato stipendio di lavapiatti. Appoggiò con fare solenne il piatto sulla scrivania del direttore e gli disse: “signor direttore, io non sono bravo con le parole ma lei ha fatto molto per me e questo è l’unico modo che ho per ripagarla. Per favore, la assaggi e poi ne faccia avere una parte anche al signor giudice e al signor Luigi, perché anche con loro sono in gran debito”
Il direttore non si fece pregare e si tagliò subito una grossa fetta di quel dolce profumato, mangiandosela di gran gusto. “Complimenti, Mario! Uno dei migliori dolci che io abbia mangiato in vita mia”, il direttore non mentiva, “chiamerò qui il giudice e il signor Luigi oggi stesso per farlo assaggiare anche a loro”.

Tra gli applausi dei colleghi Mario rientrò in cucina per ricominciare col suo lavoro. Nel pomeriggio si presentarono nuovamente i Carabinieri alla sua cella per scortarlo dal direttore. Nell’ufficio erano già seduti Luigi e il giudice i quali, a giudicare dalle briciole sulle rispettive camicie, avevano già onorato la sua creazione.

Il primo a parlare fu proprio il giudice: “caro Mario, lo vedi che avevo ragione io a volerti tenere in galera? Dopo un solo mese la tua vita è già cambiata, non credi? E per farti ancora più felice ti comunico che oggi stesso potrai tornartene a casa tua, vista la buona condotta e l’impegno che hai dimostrato”. Mario si rattristò all’idea di perdere tutto ciò che aveva così faticosamente costruito ma il giudice, intuendo quello che passava nella testa dell’ormai ex detenuto, aggiunse subito: “inoltre, d’accordo con il direttore qui presente, abbiamo stabilito che il carcere ti assuma come aiuto cuoco, in modo che tu e tua moglie abbiate di che vivere dignitosamente per il resto dei vostri giorni.”

Mario non poteva credere a ciò che sentiva e questa volta, in sprezzo di qualunque prudenza, si lanciò sul giudice per abbracciarlo. Poi disse a Luigi di aspettarlo lì, ché voleva correre in cella a riprendere il libro per restituirlo ma Luigi decise che quel libro sarebbe stato meglio in mano di quel brav’uomo piuttosto che in biblioteca a pigliare polvere e glielo lasciò tenere.

E così andò che Mario continuò ad entrare ed uscire ogni giorno dal carcere, usando però la porta del personale e non più scortato dai Carabinieri per il portone principale. A casa sua non mancò mai più il necessario per vivere né il buon cibo cucinato a dovere. E la curiosità su cosa fosse il sego e di come ci si potesse fare il brodo – usando peraltro le candele – Mario decise di non volersela togliere mai.

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